28/01/10

DA ROVIGO A FIRENZE AVANTI TUTTA

L' ordine del giorno approvato al Senato nei giorni scorsi è un primo segnale positivo sulla via del libero accesso ai farmaci cannabinoidi da parte dei malati. La possibile produzione di un farmaco italiano, la mancata distruzione delle piante che vengono coltivate a Rovigo e del principio attivo, il suo utilizzo come farmaco attraverso l'Istituto Farmaceutico Militare di Firenze, sono le soluzioni più semplici per abbattere i costi e i tempi dovuti all'importazione. Dispiace solamente che si debba tanto lottare e tanto applaudire per cose di una razionalità e di una linearità totali, che dovrebbero essere già acquisite. Troppo è il tempo, perso ai diritti dei malati, passato ad elaborare e a ribattere a obiezioni come quelle di Quagliarello, che teme un "escamotage" verso la liberalizzazione, nascosto sotto la produzione del farmaco. Obiezione disonesta: la vera liberalizzazione è quella che oggi ci vede primi nel consumo europeo, con ogni tipo di sostanze illecite vendute al mercato nero, in ogni piazza, senza controllo se non quello della mafia, che da tale mercato trae, secondo la Confesercenti, un fatturato complessivo oltre i 135 miliardi di euro e un utile che sfiora i 70 miliardi al netto di investimenti e accantonamenti.
Inoltre, sarebbe come tornare alle operazioni senza anestesia, per non favorire la diffusione degli anestetici. Assurdità medioevali, che ben si accompagnano all' incarcerazione di coltivatori di qualche pianta di canapa, malati o no che siano.
Claudia Sterzi, segretaria Associazione Radicale Antiproibizionisti

27/01/10

CANAPA MEDICA DA ROVIGO A FIRENZE APPROVATO O.D.G. AL SENATO

Cannabis terapeutica. Da Rovigo e Firenze parte la produzione italiana? Approvato ordine del giorno in Senato

Dichiarazione dei senatori Donatella Poretti e Marco Perduca, Radicali-Pd

Il centro di ricerca per le colture industriali di Rovigo, istituto pubblico autorizzato alla produzione di cannabis per scopi di ricerca, potrebbe inviarla allo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze e far partire una produzione italiana di farmaci a base di cannabinoidi. Questo il senso di un ordine del giorno da noi proposto e fatto proprio dal Governo per porre fine all'odissea cui sono sottoposti i pazienti costretti alla pratica dell'importazione burocraticamente complessa ed economicamente costosa di questa sostanza.
Un farmaco come il Sativex, a base di cannabis, potrebbe cosi' essere prodotto in Italia da strutture pubbliche con grande risparmio anche per il Ssn e per quelle Asl che ne prevedono il rimborso.
La ragionevolezza delle argomentazioni dei senatori di maggioranza tra cui Saia, Longo, Fleres e Baldassarri hanno trovato la disponibilita' del ministro della Salute Fazio a fare proprio il nostro ordine del giorno.
Ci rallegriamo del fatto che grazie ad un approfondito dibattito parlamentare per la prima volta la cannabis terapeutica trova un riconoscimento istituzionale e un impegno concreto per la sua produzione!

Qui alcuni approfondimenti:
http://blog.donatellaporetti.it/?p=1148
http://blog.donatellaporetti.it/?p=1138

21/01/10

STENOGRAFICO DEGLI INTERVENTI DEI SENATORI RADICALI IN MATERIA DI CURE PALLIATIVE, TERAPIE DEL DOLORE E CANNABINOIDI

PERDUCA (PD). Signor Presidente, in effetti oggi inizia la discussione generale su un importantissimo provvedimento che - come è stato già ricordato dal relatore e dalla senatrice Bassoli - se adottato, riuscirà finalmente - dico finalmente perché fino a 2-3 anni fa l'Italia, nella classifica stilata a livello internazionale in relazione alle cure palliative, seguiva addirittura la Namibia - a farci acquistare una posizione degna di uno Stato fondatore dell'Unione europea.

Riteniamo che si tratti di questioni rilevanti e su queste incentro il mio intervento in discussione generale.

Devo però lamentare il limitato tempo che ci è stato concesso nella giornata di ieri relativamente alla preparazione dei documenti, non dico soltanto dal punto di vista emendativo ma anche da quello dell'indirizzo generale: dalle ore 15,30 alle ore 21, o poco più, in una giornata in cui si doveva affrontare in Aula una situazione molto delicata come quella della giustizia italiana, il che non ha consentito a me ed alla senatrice Poretti di affrontare tutte le problematiche di tale provvedimento. Sono questioni che hanno tanto a che fare con l'amministrazione nazionale quanto, ahinoi, e poi cercherò di entrare nel dettaglio, con un'architettura internazionale che da 49 anni regolamenta la presenza nel mondo, nel tentativo di controllarla, delle piante, e dei loro derivati, che possono produrre sostanze sicuramente tossiche (le cosiddette droghe e le sostanze stupefacenti) ma, allo stesso tempo, medicine e per l'appunto tutti i derivati che in parte sono già utilizzati nella cura del dolore.

Nel 1961 la comunità internazionale adottava la prima Convenzione delle Nazioni Unite per il controllo delle sostanze psicotrope, nella quale dove però in maniera arbitraria si elaboravano quattro tabelle che mettevano sotto strettissimo controllo tanto le piante quanto i derivati. Ne deriva quindi che la canapa indiana, il papavero e la foglia di coca sono trattate alla stregua dei loro derivati, sia che si tratti di derivati fortemente tossici sia che si tratti di derivati da cui si possono produrre anche delle medicine. Tale architettura, che poi con gli anni è stata ulteriormente rafforzata con altre due Convenzioni, nel 1971 e nel 1988, che hanno ulteriormente ristretto l'ambito in questione, è stata poi declinata a livello nazionale con l'incorporazione di queste norme nei vari Stati che hanno ratificato i documenti.

L'Italia - ahinoi! - alla fine degli anni Ottanta adottò la famigerata legge Iervolino-Vassalli, una delle più proibizioniste del mondo che però - unico caso al mondo - nel 1993, grazie ad un referendum dei radicali fu fortemente emendata per porre rimedio ad un regime che secondo noi non soltanto ledeva fortemente la libertà di scelta degli individui, ma allo stesso tempo poneva anche molti limiti a tutta una serie di possibili riduzioni del danno; in quel caso non si parlava di cure palliative ma di tossicomania, che il proibizionismo ha sempre portato con sé.

Le Nazioni Unite, dopo aver adottato questi tre documenti, hanno creato anche un'agenzia specifica, che ha sede Vienna e che l'Italia negli ultimi 25 anni ha sempre diretto con varie personalità (oggi c'è l'economista Enrico Maria Costa), che cerca, da una parte, di farsi garante delle Convenzioni e, dall'altra, insieme alla Giunta internazionale per le sostanze stupefacenti, di regolamentare quanto è possibile all'interno delle convenzioni, e cioè una produzione sia delle piante che delle sostanze raffinate per fini medici e scientifici, tra i quali rientrano chiaramente sostanze come la morfina, la codeina ed i derivati della canapa indiana e della foglia di coca.

Nel 1960 (se dovessimo rimanere a uno degli analgesici più potenti, cioè la morfina) il papavero veniva prodotto in due Stati: la Turchia e l'India. Al momento in cui si decise di regolamentare la presenza di queste piante nel mondo si fece la fotografia e si disse che l'80 per cento della produzione mondiale di questa pianta doveva comunque rimanere possibile in questi due Stati e che le quote eccedenti potevano essere distribuite in giro per il mondo. Si fecero avanti l'Australia (forse non tutti sanno che l'isola della Tasmania è il più grande produttore di papavero che poi viene utilizzato per l'oppio), ma anche l'Europa: in alcuni Paesi dell'ex blocco del Patto di Varsavia, come l'Ungheria o la ex Cecoslovacchia il papavero fa parte della cultura alimentare locale; anche in Spagna e in Francia è consentito produrlo per farne poi morfina e codeina.

Stiamo parlando però del 1961 (ricordo la Baia dei porci; da poco, poi, si era entrati nello spazio) e su quei dati - la cui elaborazione, ahimé, era chiaramente relativa alla disponibilità di dati che potevano essere condivisi in un mondo diviso dalla Guerra fredda - si è tarato un sistema che, a livello centrale, la Giunta internazionale per il controllo delle sostanze stupefacenti da Vienna cercava di governare, o quantomeno di far rientrare all'interno dell'architettura legale nata con la Convenzione del 1961. Quindi stime, molto spesso stime di stime, perché sappiamo che nel 1961 - ma anche oggi - un terzo dei Paesi facenti parte delle Nazioni Unite non possono essere considerati, non dico democrazie, ma Stati efficienti dal punto di vista amministrativo. Pertanto, i dati forniti dal Ministero della salute al Presidente del Consiglio e inviati quindi alle Nazioni Unite sono, se non fallaci, molto spesso inesistenti: Paesi come l'Arabia Saudita, ad esempio, non forniscono alcun tipo di dato alle Nazioni Unite, e lo stesso dicasi per tutta l'Africa subsahariana. Allo stesso tempo, credo che sia impossibile ritenere che in quei Paesi non esista il dolore o, addirittura, che non esistano quelle poche sostanze che possono essere utilizzate per la cura dello stesso.

Questa architettura, che la Giunta internazionale per il controllo delle sostanze stupefacenti (INCB) cerca di gestire, stabilisce le quantità che legalmente possono essere prodotte nel mondo, sulla base dei dati che vengono forniti dagli Stati a Vienna. Tale meccanismo è definito di domanda legale, alla quale deve corrispondere necessariamente un'offerta legale di quantità pressoché simili, salvo delle piccole eccedenze che possono essere stoccate in luoghi che sono molto più vicini a delle basi militari che non a dei veri e propri magazzini: stiamo parlando infatti di sostanze che, se deviate in alcuni contesti e ulteriormente raffinate, possono sicuramente diventare sostanze tossiche anche letali, come per esempio l'eroina.

Se tutti i Paesi del mondo, attraverso un processo legislativo come quello che entro le prossime settimane speriamo di portare a conclusione, dovessero andare nella direzione di rendere molto più facile la prescrizione di analgesici derivanti dalle sostanze catalogate nelle tabelle della Convenzione ONU del 1961 sulle sostanze psicotrope, è chiaro che la domanda reale di analgesici derivati da queste sostanze crescerebbe esponenzialmente, a fronte però della domanda legale, quella cioè che viene quantificata dalla Giunta sulla base dei dati forniti, che vengono elaborati e trasferiti poi a Vienna.

Credo che tutto questo debba essere tenuto in conto, non perché siano dei ragionamenti astrusi, ma perché se un domani l'Italia dal 150° posto - qual era l'ultima volta che ho controllato le classifiche relative alla disponibilità di cure palliative nel mondo - dovesse salire al 10°, al 15° o al 20°, vorrebbe dire che decuplicherebbe la nostra domanda reale e quindi - visto e considerato che abbiamo un'amministrazione pubblica che funziona - conseguentemente la domanda legale di oppiacei, ma anche di derivati dalla canapa e un domani, chissà, anche di derivati dalla foglia di coca, perché questo non è che un primo passo verso una direzione che può rendere sempre più possibili e diffuse queste sostanze nel nostro Paese. La nostra domanda magari centuplicherebbe, perché in effetti oggi, ahinoi, si soffrono ancora le pene dell'inferno quando si sta male, non potendosi avere accesso alla morfina, che è invece consentito negli Stati Uniti d'America.

Cosa farà l'Italia a quel punto? A me non pare di aver scorto in questo provvedimento - ma magari misure in tal senso potranno essere adottate successivamente - una modifica della legge che regolamenta la possibilità per l'Italia attraverso il meccanismo internazionale di approvvigionarsi di una quantità di morfina che va ben oltre la soglia posta alla legge attuale.

Se noi oggi parliamo di "x" e l'anno prossimo dovessimo parlare di "x al quadrato" o "x al cubo", non so se l'Italia legalmente riuscirebbe facilmente ad approvvigionarsi di queste sostanze senza mettere mano alla legge nazionale che le consente di comprare più morfina rispetto a quella prevista per l'anno in corso in una percentuale del 10 per cento (così mi pare dica la legge). Comunque, si troverebbe sicuramente sbilanciata all'interno dell'Unione europea e all'interno delle Nazioni Unite in questo boom di domanda di sostanze oppiacee.

Tutto questo dev'essere preso in considerazione e mai però è emerso nel dibattito che è stato fatto in Commissione in maniera un po' affrettata, visto e considerato che ieri è stato concluso alle ore 15,30 e abbiamo avuto cinque ore scarse per preparare i documenti.

È un peccato che non sia in Aula il sottosegretario Mantica, perché questo ha a che fare con la nostra presenza all'interno dell'Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine di Vienna e avrà a che fare magari, se l'Italia riterrà di prendere in considerazione questi nostri suggerimenti contenutinelle cinque pagine di ordine del giorno che ho preparato insieme alla senatrice Poretti, con la 53a sessione della Commissione droghe di Vienna che si terrà a metà marzo. È lì che la questione va sollevata dicendo che quanto era stato fotografato nel 1961, 1971 e 1988 dalle Convenzioni internazionali oggi non vale più per tanti motivi, e non perché si vogliano legalizzare le droghe (anche se noi, antiproibizionisti radicali, le vogliamo legalizzare per regolamentarle: ma questo è un altro tipo di problema), ma perché si ritiene che la quantità di piante e loro derivati prodotti per uso medico e scientifico debba essere aumentata.

In Italia, per consentire questa presenza legale e regolamentata, abbiamo cambiato nei mesi di gennaio e febbraio la nostra legge e, quindi, da domani l'Italia vuole avere una quantità di sostanze per la cura del dolore pari a quella degli Stati Uniti. Questo va a sconvolgere gli equilibri a livello internazionale.

Non è che noi abbiamo una risposta dal punto di vista tecnico, ma abbiamo una proposta dal punto di vista politico che abbiamo già fatto negli anni scorsi a livello formale e che nella XV legislatura fu fatta propria dal Governo Prodi per essere portata alle Nazioni Unite. Posto appunto che però va sollevato il problema della modifica di questo meccanismo che bilancia le quote legali di produzione, di acquisto e distribuzione dei derivati delle sostanze contenute nelle convenzioni delle Nazioni Unite, occorre andare a trovare nel mondo chi possa fornirle qualora tutti gli altri 26 Stati dell'Unione europea dovessero adottare una legislazione simile alla nostra.

In effetti, i Paesi nordici già l'hanno adottata e lì, ora, è più facile essere curati con morfina e codeina, ad esempio. In alcuni Stati, inoltre, si iniziano ad utilizzare i derivati della canapa indiana (e noi abbiamo presentato anche degli emendamenti in questo senso). Negli Stati Uniti 14 Stati su 50 ormai hanno legalizzato la marijuana come medicina. Si sta quindi creando un movimento, finalmente, non di opinione pubblica o politica, ma di buon senso che, riconoscendo queste piante e i loro derivati come medicine, dice di utilizzarle come tali perché fanno del bene e addirittura cancellano il dolore.

Noi riteniamo, in maniera non provocatoria, ma per il governo di un fenomeno che ha, se non altro, due aspetti, quello delle cure palliative e quello geopolitico e geostrategico, che l'Italia, proprio in vista della Conferenza che si terrà a Londra il 28 gennaio sull'Afghanistan, di concerto con gli altri partner europei, debba assumersi la responsabilità di proporre la possibilità di trasferire nel mercato legale tutto l'oppio che viene prodotto in Afghanistan; altrimenti si è certi (checché ne dicano gli ex zar antidroga come l'europarlamentare dell'Italia dei Valori Pino Arlacchi, qualcuno che è stato sospeso dalle Nazioni Unite per la sua mala condotta, o anche l'attuale direttore dell'ufficio di Vienna, dottor Costa, che ritiene che la situazione sia sotto controllo) che questo altro oppio verrà trasferito nei laboratori che sono presenti in Afghanistan e nei Paesi limitrofi, trasformato in eroina per essere poi sicuramente venduto nelle ex Repubbliche sovietiche e in Europa. Si compri, quindi, si stocchi e si elabori quel derivato del papavero in morfina e codeina e tutti gli altri analgesici oppiacei.

Mi avvio alla conclusione del mio intervento sottolineando - per chi fosse ulteriormente curioso di avere dati elaborati non da noi ma dalla Nazioni Unite - che secondo l'Organizzazione mondiale della sanità l'80 per cento degli oppiacei prodotti nel mondo viene utilizzato da dieci Paesi. Pertanto, su poco più di sei miliardi di persone, neanche un decimo ha accesso facile a questo tipo di cure; il resto del mondo patisce. Potrebbe farvi parte anche l'Italia: nel nostro Paese, però, anche prima del provvedimento in esame, con un minimo di sforzo si poteva avere la fortuna di ottenere un'iniezione che calmava il dolore. Si tratta di persone che hanno un tumore, che hanno subìto un incidente o un cataclisma naturale. In ogni caso, vi sono Paesi nei quali questa possibilità non esiste, magari perché non vi è neanche un'amministrazione o uno Stato oppure perché, qualora questo esista, è povero e non può permettersi cure palliative.

Allora, se oggi l'Italia (così come il resto dell'Europa) non modifica la legge e si fa promotrice anche nei Paesi con i quali intrattiene rapporti di aiuto e cooperazione allo sviluppo di modifiche legislative o addirittura di aiuti umanitari, in virtù del nostro tradizionale impegno nei Paesi poveri, specialmente nel settore della sanità, è chiaro che il sistema non regge più. Dunque, se ci si fa promotori delle terapie del dolore, credo che nello stesso tempo ci si debba assumere la responsabilità delle modifiche legislative.

Nell'ordine del giorno G103, che viene illustrato oggi ma che probabilmente verrà discusso la prossima settimana, chiediamo che tutto ciò venga preso in qualche modo in considerazione. Vi risparmio tutte le premesse e mi limito a leggere quello che chiediamo al Governo. Tra l'altro, considerato che negli ultimi giorni il mondo è - ahinoi - bombardato dalle drammatiche e tragiche notizie provenienti da Haiti, l'Italia, che promette alle Nazioni Unite di sostenere alcune iniziative ma non sempre mantiene la parola data, dovrebbe attivarsi, a parte l'invio delle portaerei, anche con contributi alle agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di questo. Ne esiste una, in particolare, che si chiama United Nations Central Emergency Response Fund.

Chiediamo, dunque, al Governo che mantenga gli impegni assunti relativamente al contributo per quell'agenzia, alla quale peraltro vanno a finire le richieste di analgesici. Chiediamo inoltre, che il Governo prenda in considerazione in termini strategici le raccomandazioni avanzate dal Parlamento europeo nell'ottobre 2007 circa la possibilità di lanciare progetti pilota di coltivazione di papavero per la produzione di analgesici (in particolare in Afghanistan); persegua politiche che, tenendo conto del contesto nazionale afgano, non avviino l'estirpazione forzata delle colture per non contribuire a creare ulteriori situazioni di conflitto con la popolazione civile, in particolare con le migliaia di contadini che lavorano nel settore della produzione di papavero (si tratta del 16 per cento della popolazione afgana); iscriva finalmente all'ordine del giorno della 53ª sessione della Commissione ONU sulle droghe dell'8-12 marzo prossimi la necessità di rivedere in sede multilaterale il meccanismo che alloca le quote di produzione legale del papavero per oppiacei ipotizzando l'inclusione dell'Afghanistan tra i Paesi che oggi coprono la cosiddetta domanda legale internazionale.

Questi temi purtroppo non sono rientrati perché il dibattito è stato svolto prevalentemente in Commissione igiene e sanità nelle settimane scorse, ma - a nostro avviso - dovrebbero essere posti al centro dell'iniziativa politica, non solo nazionale, ma anche multilaterale dell'Italia. Infatti, un'esplosione di domanda reale, e quindi legale, a livello nazionale inciderebbe sugli equilibri internazionali. (Applausi dei senatori Poretti e Saia).


...

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la senatrice Poretti. Ne ha facoltà.


PORETTI (PD). Signor Presidente, questo suo accenno ai lavori mi sembra utile per avviare il mio intervento. Infatti, questo disegno di legge, che, ricordo a tutti, è uscito con un voto unanime dalla Camera dei deputati e, quindi, ritengo avesse ottime possibilità per vedere una corrispondente situazione di unanimità anche al Senato, ha però visto un iter che, secondo me, non ci fa onore come Parlamento.

Questo testo è stato assegnato alla Commissione sanità alla fine di settembre; tale Commissione si è evidentemente occupata, prevalentemente e ossessivamente, di un'unica questione, da settembre a dicembre, che è stata un'indagine conoscitiva sulla pillola abortiva RU-486. Questo disegno di legge è stato pertanto accantonato; a dicembre l'abbiamo ripreso, fissato nottetempo il termine per gli emendamenti in Commissione, votati subito alla ripresa dei lavori, e ieri, l'ultimo atto - a mio avviso - di spregio alle istituzioni è stato che questo testo è uscito dalla Commissione alle ore 15,30 e alle ore 20 veniva fissato il termine per gli emendamenti per l'Aula. Io, che ho seguito i lavori in Commissione, ho visto in due giorni il testo cambiare radicalmente - non sempre in negativo, anche in positivo, ma comunque cambiare - in tutti gli articoli, ma non avevo il nuovo testo che è arrivato oggi in Aula; l'ho avuto soltanto ieri sera, alle ore 19, in Aula, quando dovevo intervenire sulla Relazione annuale del Ministro della giustizia. Pertanto, mentre ascoltavo il ministro Alfano, intervenivo e ascoltavo la sua replica, predisponevo gli emendamenti per l'Aula. Io che ho seguito tutto l'esame del provvedimento, dico fin da subito che avrei voluto proporre un emendamento per ripristinare l'articolo 10 così come uscito dalla Camera, che invece non troverete perché mi è sfuggito; è sfuggito a me che ho seguito i lavori in Commissione su questa materia dalla prima all'ultima seduta. Immagino dunque come possano intervenire nella discussione, o facendo uso degli altri strumenti che ha a disposizione il parlamentare (gli ordini del giorno, gli emendamenti), senatori che non hanno partecipato al dibattito in Commissione. Credo che nemmeno sapessero che ieri si fosse licenziato un testo e quindi non credo che ieri pomeriggio abbiano potuto presentare emendamenti.

Dico questo, poi, con una Commissione che non ha neppure svolto delle audizioni. Io stessa, che spesso le sollecito, non le ho richieste perché ritenevo che quel testo accolto all'unanimità dalla Camera non sarebbe stato stravolto dal Senato; gli interventi, invece, sono stati molti e forse allora qualche audizione sarebbe stata utile. Le uniche audizioni che sono state svolte (alle ore 8,30 della mattina) in Commissione sono state quelle di tecnici del Ministero della salute e di tecnici e funzionari del Dipartimento per le politiche antidroga.

Ora, è certo ottimo l'aver tenuto questo tipo di audizioni, di interlocuzione, ma credo che anche altre audizioni a questo punto sarebbero risultate utili. Lo dico riferendomi ad un particolare aspetto di questa legge, cioè la semplificazione della ricettabilità e della somministrazione dei farmaci antidolore e delle cure palliative anche a domicilio: quindi, chi e come può prescrivere, che è un punto nodale della diffusione, nella pratica, della possibilità di prescrivere per i medici. Abbiamo interpellato, ciascuno di noi, palliativisti e dottori che non conoscevamo per interpretare l'articolo 10 approvato dalla Camera e poi, alla fine, alle ore 15,30 di ieri, uscito dalla Commissione qui al Senato; ebbene, tecnici del settore che tutti i giorni hanno a che fare con queste leggi davano continuamente pareri differenti. Poi, magari, con dei colloqui, si riaccordavano, però che la materia non sia semplice credo che ci trovi tutti concordi, così il procedere ad interventi in cui si va a toccare un comma, una lettera, di un testo unico sugli stupefacenti che a sua volta nel corso degli anni è stato modificato crea una legge di difficile interpretazione.

Allora, io l'ho capita così (poi qualcuno mi smentirà e dirà invece che la mia interpretazione era sbagliata): secondo il testo della Camera tutti i medici, con qualsiasi tipo di ricettario (quello speciale per gli stupefacenti, quello rosso del Servizio sanitario nazionale e perfino quello bianco) potevano prescrivere perfino la morfina per via endovena, anche a domicilio. Certo, ci sono ricette che sono tracciabili: mi riferisco in particolare alla ricetta rossa e al ricettario speciale per gli stupefacenti. La ricetta bianca, invece, non è così tracciabile e allora la cautela che aveva introdotto la Camera era la seguente: il farmacista trattiene le ricette e poi le invia all'Ordine dei medici, da una parte, e all'ASL, dall'altra, per consentire di verificare se effettivamente un dato medico faccia "abuso" di ricette di morfina a domicilio, nel qual caso si potrebbero eseguire ulteriori controlli e verifiche.

Questo, a quello che ho capito io, era il testo della Camera. Quello che è uscito ieri pomeriggio alle ore 15,30 sinceramente non l'ho ancora ben capito, anche perché non ho avuto il tempo di rifare tutto quel giro di palliativisti e di esperti del settore che ne diano una corretta interpretazione. Mi pare di capire che si sia arrivati alla conclusione che la ricetta, oltre a quella speciale per stupefacenti, è anche quella rossa, cioè quella in carico al Servizio sanitario nazionale. Se così fosse si sarebbe fatto un passo indietro, perché non tutti i medici hanno il ricettario rosso e quello speciale. Vedo che già il Ministro mi fa segno di no con la manina: quindi, come vedete, siamo ancora qui a cercare di capire che cosa prevede questo testo, su cui ormai il termine per eventuali emendamenti è scaduto.

Quindi, mi affido al buon cuore, alla buona scienza del ministro Fazio, anche se non credo che un parlamentare si debba affidare e fidare di un Ministro, ma non perché io sono dell'opposizione e lui è della maggioranza, ma solo perché non credo sia questo il compito del legislatore, né tanto meno quello di fare leggi interpretabili; infatti, se il testo già è interpretabile qui, come era interpretabile in Commissione, mi immagino cosa potrà succedere quando la legge verrà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Si aprirà un dibattito su chi interpreta questo testo e se lo fa correttamente. Chiudo questa parte che rappresenta una sorta di intervento a carattere generale su come si fanno le leggi. Vorrei che le leggi che si approvano fossero veramente più chiare; mi sembra peraltro che vi sia stato un intervento normativo per cui nell'ambito di una legge non si possono prevedere rimandi a diecimila altre leggi, magari sopprimendone un comma, una lettera o un articolo, perché in tal modo non ci si capisce davvero più niente.

Aggiungo, tra l'altro, che questo provvedimento, esaminato solo presso la Commissione sanità, in quanto dovrebbe interessare il diritto alla salute e la libertà di terapia dei cittadini, in realtà prevede una parte corposa che fa riferimento al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, vale a dire il Testo unico sugli stupefacenti. Non so se su questa materia, in qualità di componenti della Commissione sanità, eravamo sufficientemente competenti; forse sarebbe stato necessario anche il supporto della Commissione giustizia.

Per quale motivo poi in Italia siamo agli ultimi posti con riferimento alle terapie del dolore. È solo un problema culturale? Non credo che gli italiani provino piacere a soffrire, non soltanto nella fase terminale della loro vita, cosa che comporta terapie palliative, ma anche nei momenti gioiosi. È stato ricordato che il parto in Italia ancora avviene in maniera tribale, con le donne che urlano perché non possono essere assistite da interventi di analgesia. Questa continua a rimanere un miraggio, anche se non credo che le donne vogliano partorire con dolore, come recitava un testo antico: credo invece che il problema stia piuttosto nello stigma che viene messo su certe sostanze, per cui quando una sostanza finisce tra quelle proibite cui si fa riferimento nel Testo unico sugli stupefacenti, scatta un divieto che porta con sé una serie di conseguenze, a grappolo, dannose anche per usi diversi - in particolare quelli terapeutici - da quelli per i quali la sostanza era stata inserita nell'elenco del sostanze proibite.

È il problema di fondo delle tabelle contenute nel Testo unico sugli stupefacenti: se si vieta la sostanza, ma non l'uso della sostanza, nei fatti si mette lo stigma alla sostanza e se ne impedisce poi la diffusione, la promozione e quant'altro. Se questo è quanto avviene con la morfina, che perlomeno si chiama diversamente dall'eroina, anche se la pianta da cui hanno origine entrambe le sostanze è la stessa, è ancora più incredibile che ciò accada con la cannabis terapeutica. Utilizzare lo stesso termine forse non aiuta, per cui si potrebbe forse provare ad utilizzare il nome dei farmaci, quali il Sativex o il Bedrocan.

Nei fatti, l'avere origine da quella sostanza, da quella stessa pianta che esiste in natura e che si vieta per legge, porta con sé una serie di proibizioni dannosissime. Il fatto che questa nuova versione dell'articolo 10, di cui si stava parlando, suggerisca che il Ministero della salute per spostare una sostanza tra le varie categorie - quelle maggiormente proibite, quelle meno proibite o quelle proibite, ma alle quali viene riconosciuta un'attività farmacologica - debba sentire il Consiglio superiore della sanità - ed è giusto - ma, anziché sentire l'Istituto superiore di sanità, debba sentire il Dipartimento delle politiche antidroga, sia già di per sé un segnale davvero negativo.

Non credo, infatti, che il Ministero della salute operi a favore degli spacciatori, a meno che si abbia una mala visione del medico che spaccia farmaci o sostanze che creano dipendenze nei pazienti. Sulle dipendenze potremo poi intavolare un altro discorso, dal momento che si sentono rivolgere critiche perfino in merito a somministrazioni troppo prolungate di morfina o di altro perché in un malato terminale - non è ironico - possono creare una dipendenza. A parte il fatto che affermazioni così grottesche fanno venire i brividi o addirittura sorridere, credo che in questo punto risieda molto della problematica dell'argomento al nostro esame.

Quanto alla cannabis terapeutica o ai farmaci a base di principi attivi presenti nella pianta della cannabis, ne esistono molti per curare ed alleviare una serie di dolori importanti legati espressamente - faccio un breve elenco - alla terapia del dolore neuropatico, del dolore tumorale, dell'emicrania, della sindrome di Tourette, dei glioblastomi e dell'artrite reumatoide. Premetto che sono oltre 17.000 gli studi al riguardo; non si parla di gente che si fa uno spinello e alla fine sostiene che gli ha fatto passare il mal di testa, ma si parla di riviste scientifiche. Tengo ancora una volta a separare le cose e a sottolineare io stessa quanto spesso esse si possano intersecare. Secondo studi scientifici, riviste scientifiche riconosciute dalla comunità internazionale e oltre 17.000 studi, queste terapie aiutano e per le malattie che sto per elencarvi possono aversi delle ricadute positive attraverso i principi attivi della cannabis. Esse sono: malattie infiammatorie croniche intestinali (morbo di Crohn, colite ulcerosa); tumorali; lesioni midollari; malattie neurodegenerative (morbo di Alzheimer, corea di Huntington, morbo di Parkinson); epilessia; malattie autoimmuni (lupus eritematoso); sindromi ansioso-depressive; patologie cardiovascolari (ipertensione arteriosa, aterosclerosi); sindromi da astinenza nelle dipendenze da sostanze da abuso (alcool e fumo).

Ne aggiungo un'altra. Recenti studi hanno dimostrato l'utilità dell'applicazione dei derivati della cannabis nella cura dello stress post-traumatico che colpisce frequentemente i militari di ritorno dalle zone calde di guerra e che subiscono traumi per combattimenti ed attentati terroristici. Da qualche anno il Governo israeliano sta utilizzando questi principi per i propri militari, e credo che ciò sia utile a separare nuovamente gli usi diversi che possono essere fatti di una sostanza che deriva da una pianta esistente in natura.

Gli studi compiuti ci sono di aiuto e ci riportano alla situazione italiana. Prima del 2007, tutto quello che riguardava la parola cannabis e i suoi derivati era contenuto nella tabella 1 della normativa sugli stupefacenti, e quindi meramente proibito. Nel 2007 l'allora ministro Livia Turco fece un'operazione davvero saggia, razionale - non saprei come definirla - logica. Decise che il cannabis delta-9-tetraidrocannabinolo (THC) dovesse essere inserito nella tabella 2. Gli studi stavano a testimoniare che aveva effettivamente una riconosciuta attività farmacologica. Dopodiché siamo in uno stato di limbo, per cui a quel principio è riconosciuta un'attività curativa medica, ma esso non viene prodotto in Italia, nel senso che nessuna azienda ha chiesto di fare la produzione. Nei fatti, quei pazienti che vogliono utilizzare farmaci a base di detto principio devono sentire il proprio medico, passare attraverso l'ASL, seguendo un iter burocratico davvero complicato e alla fine importarlo dall'estero.

Questo avviene per terapie che non durano più di due mesi. Faccio un esempio pratico: una persona va dal medico, avvia tutto questo iter, che va pure a buon fine, e si vede recapitare per due mesi a casa un farmaco, che costa sul mercato intorno ai 50 euro, ad un costo di circa 500-600 euro. Questo aggravio di spesa deriva semplicemente dai costi dell'importazione. In alcuni casi ci sono pazienti fortunati, pochissimi in Italia, che appartengono ad alcune ASL che hanno deciso di rimborsare tale farmaco; i meno fortunati si trovano invece, dopo un paio di volte, a desistere da questa pratica. Se per un farmaco che costa 50 euro devo spenderne 500 al mese diventa difficile e diventa ancor più difficile quando quella stessa sostanza la si trova all'angolo della strada ai soliti 50 euro.

Pensiamo, per esempio, al Bedrocan (che altro non è che la puntina della pianta della cannabis, e che è prodotto dal Ministero della sanità olandese): se io lo compro attraverso questa procedura mi costa 600 euro; se io quella stessa pianta la coltivo a casa finisco in carcere per coltivazione illegale di stupefacenti. Uno Stato che però mi spinge a fare ciò indotta dal bisogno economico (a fronte di un costo pari a zero dell'autoproduzione in casa, se si vuole acquistare la stessa sostanza attraverso le vie legali occorre spendere 600 euro al mese) non credo sia uno Stato che guarda al benessere dei cittadini e che tutela il diritto alla salute e la libertà terapeutica, ma uno Stato di tipo criminogeno, cioè che mi porta a commettere un reato, un illecito, in alcuni casi amministrativo. Se infatti, invece che coltivare tale sostanza, me la compro dallo spacciatore, allora vengo "solo" segnalata al prefetto per una contravvenzione.

Ho finito il tempo a mia disposizione e qui termino, appellandomi al Parlamento, anzitutto affinché siano rivisti, se possibile, i termini per la presentazione degli emendamenti, visto che non votiamo il disegno di legge oggi ma la prossima settimana, e poi per invitare tutti ad eliminare per davvero gli schemi ideologici: è assurdo vietare le sostanze, comporta solo effetti negativi sui pazienti; regolamentiamone l'uso. (Applausi del senatore Perduca).