25/12/11

La morte di Giuseppe Uva, un caso di vendetta tribale, a spese nostre.


Notte di giugno, 2008, Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero, un po’ sbronzi, si accaniscono su delle transenne in una strada di Varese, spostandole; non si fa, direte, no, certo, ma mica è un delitto grave. Si ferma una macchina dei carabinieri, e da qui ci si deve affidare alla testimonianza resa da Alberto, perché quella di Giuseppe non la possiamo più avere, dato che Giuseppe Uva muore, nel giro di poche ore. Alberto, che queste testimonianze le ha date presentando due denunce, non è stato mai ascoltato e continua a ricevere minacce di morte, per sms, oltre ad una visita di “ladri” che gli hanno devastato l’abitazione.
Uno dei due carabinieri grida: “Uva! Proprio te cercavo stanotte! Questa non te la faccio passare liscia, questa te la faccio pagare!". Le botte iniziano a fioccare subito, a tutti e due, poi vengono caricati su macchine diverse (altre due macchine, della Polizia di Stato, sono sopraggiunte subito dopo), e portati nella Caserma dei Carabinieri.
Alberto, rinchiuso in una cella da solo, sente grida spaventose e urla di dolore nella stanza accanto, e chiama il 118, chiedendo l’intervento di un ambulanza, perché “stanno praticamente massacrando un ragazzo”; l’addetto del 118 fa una telefonata di controllo in caserma e gli viene risposto “No guarda, sono due ubriachi che abbiamo qui in caserma, adesso gli tolgono il cellulare”.
All’ alba sono i carabinieri stessi a chiedere un TSO per Giuseppe Uva, “uno molto agitato, violento, che minaccia tutti”; alle 8.25 viene ricoverato, alle 10.30 cessa di vivere, per cause da stabilirsi. Il Comandante del posto fisso della Polizia di Stato all' interno dell' ospedale rileva le varie ferite e i vari lividi, segni di bruciature di sigarette in faccia, bozzi e sangue posto dietro il collo, corpo tumefatto ovunque, e "si soggiunge che non c'è traccia degli slip, indumento neppure consegnato ai parenti ( perchè probabilmente intrisi di sangue ) e tuttavia non si può sottacere il riscontro obiettivo di pseudomacchie ematiche riscontrate a tergo sui pantaloni poi posti sotto sequestro con gli altri vestiti”.
La sorella, Lucia, chiamata a vedere la salma, la fotografa, nota i lividi, il pannolone, il sangue, le tumefazioni e inizia una battaglia legale cocciuta e determinata, che conduce fino ad una nuova perizia sugli indumenti, nell’ottobre del 2011, e alla riesumazione della salma, pochi giorni fa; nei pantaloni, intrisi di sangue nella zona del cavallo, tracce di "materiale biologico", non suo.
Questi i fatti, il motivo del risentimento, che ha portato alla pena di violenza, tortura e morte, sarebbe “una questione di donne”; si sa, la mente umana è un abisso, e ci sta che uomini o donne, più spesso uomini, possano desiderare di tirare due puntoni al/alla rivale, per quel famoso onore mal risposto. Da qui ad usare una caserma, sei agenti, più tutta la solita sfilza di funzionari e impiegati conniventi a vario titolo, a spese nostre, per portare a termine una vendetta spietata e miserabile, ce ne corre, ed è cosa che dovrebbe interessare tutte le autorità, a cominciare dai ministri competenti, ma anche tutti noi cittadini.

12/12/11

Cronaca del presidio antiproibizionista davanti alla Prefettura di Roma il 10 dicembre 2011

Il 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani, si ricorda la data di approvazione della Dichiarazione universale dei diritti umani, carta fondante della civiltà, così come fino ad oggi ce la siamo rappresentata, nel mondo occidentale ma non solo. I principi che guidarono la Dichiarazione venivano da lontano, e facevano parte di un universale umano che, pur nelle ripetizioni della storia, ha un percorso e un riconoscimento, sia accademico che di evidenza.
Il diritto individuale e personale ad esistere liberamente, con tutti i paletti che il diritto altrui può e deve mettere, è fra le linee della Dichiarazione, grazie alle forze liberali, e al lume della ragione; così come i diritti economici e sociali stanno ugualmente fra le linee per l’influenza di forze popolari e socialiste.
L’analisi del proibizionismo, portata avanti da svariati gruppi in tutto il mondo, fra i quali si cita il Partito Radicale per continuità e per visione transnazionale e transpartitica, e la Commissione Globale che ha recentemente rilanciato fornendo, con il suo Documento, un utile e attuale strumento, ha compreso quella della violazione dei diritti umani, sia dal punto di vista del diritto ai comportamenti individuali e personali, senza vittima, sia dal punto di vista del diritto del cittadino che deve scontare le conseguenze economiche di questo giro immenso di finanza al nero; in più, la persecuzione che in tanti paesi insiste sugli ultimi anelli di questo mercato, e si accanisce sui più deboli, sui malati, sui poveri, è di per sé una palese violazione.

Il proibizionismo è un osso duro, si manifesta in terra come un centro di potere organizzato, che muove gran parte delle finanze mondiali attraverso il traffico di armi, esseri umani e droga; una organizzazione criminale che reinveste i guadagni in corruzione degli eserciti, delle forze dell’ordine, di tutte le classi dirigenti globali, una ampia collusione tra centri di potere istituzionali e malavite organizzate, a tal punto che non si riesce spesso, e in molte zone geografiche di tutto il pianeta, a distinguere l’una dall’altra. Narcotraffico e proibizionismo sono due facce della stessa medaglia, come le cifre globali e l'evidenza dimostrano; il narcotrafficante non è solo un picciotto col ferro, nè un ispanico tatuato, è seduto nei consigli di amministrazione e nei consigli dei ministri, nelle assise internazionali altrettanto che nei vertici mafiosi.
La riunificazione dei gruppi antiproibizionisti, dal livello locale al globale, è l’unica possibile arma per spezzare questa catena viziosa; il numero delle persone coinvolte, dalla parte dei consumatori, dei coltivatori, dei farmacodipendenti, dei detenuti, dei piccoli spacciatori, è rilevante, e la configurazione in massa appare come l’unica strategia possibile, anche per tentare una conversione nonviolenta che prevenga violenti scontri sociali e disordini.
In questo percorso, verso “Vienna 2012, la fine del mondo proibizionista”, sabato mattina si sono riuniti, in pubblico, in pieno centro di Roma, a presidio simbolico della Prefettura, alcune forze politiche e movimenti che non si incontravano da molto tempo, sotto due striscioni che richiamavano uno, come il proibizionismo sia una violazione dei diritti umani, l’altro, il ricordo e il pensiero a tutti coloro che sono morti in carcere, o anche prima di arrivarci, e non di morte naturale, ma a forza di botte ad opera di squadre punitive organizzate; le parole delle striscioni non erano esattamente queste, ma non le ricordo.
Il Centro Sociale Occupato Ricomincio dal Faro ha portato un furgone sonoro ed ha iniziato la giornata con un reggae soft e molto gradevole, alle 10; c’erano più forze di polizia che presidianti, presenti il CSO, MMM, ASCIA, ARA, PIC, onorati, nel corso della mattinata, dalle visite di RI e di SEL. In altre città italiane si stavano, intanto, riunendo altri gruppi, fra i quali MLA e ALC, Comitato Verità per Aldo, a Perugia, Genova e altrove.
Quando i responsabili della sicurezza pubblica si sono resi conto che la temuta riunione si stava svolgendo, per mutua scelta, fra poche decine di persone del tutto innocue, hanno sfoltito il presidio del presidio, e le tenute antisommossa sono sparite, mentre la componente della sinistra estrema, e non vorrei offenderla, ma non si sa più come chiamarla, approfittava per passare a musiche più connotate politicamente, nelle quali si inneggiava alla ricerca casa per casa dei fascisti e dei poliziotti, generando qualche contromossa che assomigliava alle danze tribali che precedono, o esorcizzano, una battaglia. E’ però un bene che i responsabili dell’ ordine pubblico si rendano conto di che cosa le loro politiche, sulle droghe e sulla sicurezza, hanno generato, e di come abbiano ridotto il rapporto tra giovani cittadini e forze dell’ordine a una battaglia permanente, fra pressapochismo culturale e mancata formazione di ambedue; il livello di violenza e di conflitto sociale è più alto di quanto percepito da uomini politici, giornalisti, intellettuali, professori.
I gruppi antiproibizionisti, e quelli che si sono fatti responsabili di rappresentarli, esponendosi, possono trovare una via di fuga, tra violenza e sconfitta, attraverso armi nonviolente di massa, che forse hanno aspetti utopici, ma non conoscono, per ora, altra alternativa che la rinuncia alla lotta. C.S.