Divieto di coltivazione della canapa in contrasto con i diritti del malato
Pochi giorni fa, a Venezia, i Carabinieri sono entrati in casa di un professore in pensione di 66 anni e di sua moglie, 58 anni, malata di distrofia muscolare da 30 anni, invalida in seggiola a rotelle; lì i militi hanno rinvenuto, e sequestrato, 42 piante di canapa coltivate in 16 vasi. La signora ha dichiarato di usare da sei anni la canapa per i suoi effetti miorilassanti e analgesici; del fatto sono informati i medici che la seguono.
La signora ha dichiarato: "O mi cercherò uno spacciatore oppure sarò costretta ad aumentare i dosaggi di farmaci, quali il Valium, che mi danno effetti collaterali".
Nel verbale si legge che le sanzioni previste potranno essere sospese "qualora l'interessato richieda di essere avviato a un programma di recupero". "Magari ci fosse un programma di recupero per la mia malattia", ha commentato la signora.
Questa la notizia; in poche righe, tutta la follia legislativa che negli anni si è accanita su una pianta, la canapa, alla quale decenni di demonizzazione cieca non sono riusciti a togliere il credito, sia terapeutico che ludico, del quale gode presso tutti i popoli del mondo. A fronte di un effetto terapeutico conclamato dalla saggezza popolare e dai risultati di studi scientifici, è proibito coltivarla in casa propria, è proibito acquistarla, detenerla, cederla; ed è proibitivo il prezzo al quale le unità sanitarie rivendono i farmaci a base di canapa, che solo loro hanno il monopolio di importare dall'estero.
Non è più sopportabile, nè sostenibile, una politica che impedisce l'accesso a farmaci efficaci senza alcun motivo valido, punendo contemporaneamente anche la coltivazione domestica. Da leggi proibizioniste e illiberali deriva e risulta la violazione dei diritti del malato. Di fronte a fatti come quello di Venezia emerge chiaramente l'urgenza di porre un termine, o almeno un freno alla deriva autoritaria in tema di sostanze stupefacenti, risultata oltretutto assolutamente inefficace.
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